13Giugno

La morte invisibile: natimortalità nei paesi a basso reddito

Eugenio Racalbuto* e Vieri Lastrucci*°
*Centro di Salute Globale, Regione Toscana
°Università degli Studi di Firenze

Introduzione

Il termine “nato morto” (stillbirth) è raccomandato dall’OMS per consentire il confronto sulla natimortalità tra i diversi paesi nel mondo, e si riferisce al bambino nato senza segni di vita, a partire dalla ventottesima settimana di gravidanza (1). La natimortalità, infatti, non è definita in maniera univoca all’interno delle varie legislazioni dei paesi, e varia a seconda dell’età gestazionale e del peso fetale, rappresentando uno dei problemi di salute con il maggior numero di definizioni legali. Solo negli Stati Uniti, a seconda delle combinazioni tra età gestazionale e peso, sono riconosciute otto diverse tipologie di natimortalità, e almeno altrettante sono presenti nei paesi Europei. In generale, le varie normative richiedono di registrare le morti fetali al raggiungimento di una certa età gestazionale (da un minimo di 16 ad un massimo di 28 settimane) o di un determinato peso alla nascita (da un minimo di 350 grammi al massimo di 1000 grammi) (2). Inoltre anche per quanto riguarda le cause sottese alla natimortalità, esistono numerosi sistemi di classificazione. Questa eterogeneità di definizioni e di sistemi di classificazione rende difficili le analisi e i confronti a livello internazionale tra i diversi paesi in materia di natimortalità. Al di là dei problemi di definizione e di classificazione delle cause, è da sottolineare come ancora in alcuni paesi a basso e medio reddito le morti in utero non siano registrate, e inoltre, spesso sono registrate non distinguendo tra morte in utero antepartum e morte in utero intrapartum, rendendo più complicata l’analisi dei decessi e delle loro cause (3).
La natimortalità non ha riscosso, sia in passato che nel presente, l’attenzione dovuta, infatti, tale tematica non era affrontata negli Obiettivi di Sviluppo del Millennio ed è rimasta trascurata anche nei più recenti Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, risultando spesso invisibile nelle politiche e nei programmi nazionali (4).  In questo quadro una maggiore disponibilità di dati risulterebbe una condizione quanto mai necessaria per aumentare il coinvolgimento dei governi e dei donatori internazionali nel contrasto alla natimortalità.

Natimortalità nel mondo

Nel 2015 le morti in utero sono state circa 2,6 milioni, di cui il 98% nei paesi a basso e medio reddito, con oltre 2 milioni di decessi solo nell’Africa subsahariana e nell’Asia meridionale, come mostra la Figura 1. Circa il 70% della natimortalità si concentra in 10 Paesi (India, Nigeria, Pakistan, Cina, Etiopia, Repubblica Democratica del Congo, Bangladesh, Indonesia, Tanzania e Niger), gli stessi Paesi che nel 2015 hanno maggiormente contribuito al carico globale di morti neonatali (62%) e materne (58%). L’Africa subsahariana è la regione che registra la più alta incidenza di natimortalità e il trend di riduzione meno accentuato (5).

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Fig. 1. Prevalenza della natimortalità nel mondo (2015)

Oltre alla notevole differenza di incidenza di natimortalità tra le regioni più sviluppate e quelle meno sviluppate del mondo si può osservare che in queste ultime (Africa subsahariana e Asia del sud in particolare) la percentuale di morti in utero intrapartum risulta essere elevata: questo è ascrivibile ad un inferiore ricorso a strutture sanitarie per il parto e ad una minore qualità dei servizi sanitari in queste aree. Sempre in Africa subsahariana e in Asia del sud si evidenzia una maggiore incidenza di natimortalità nelle aree rurali, questo è principalmente ascrivibile alla limitata accessibilità all’assistenza prenatale che spesso contraddistingue tali aree in queste zone del mondo.

Per quanto riguarda i progressi fatti nella lotta alla natimortalità, si è osservata una riduzione annuale pari al 2,0% delle morti in utero nel periodo 2000-2015 (da un tasso di natimortalità globale che nel 2000 equivaleva a 24,7 per 1000 nati vivi ai 18,4 per 1000 nati vivi registrati nel 2015). Tuttavia, nel periodo più recente (2008-2015) la differenza del numero delle morti in utero è di solo 26.800 decessi. Nonostante i progressi registrati, la riduzione annuale risulta notevolmente più lenta rispetto a quella registrata per la mortalità materna (riduzione annua del 3%), neonatale (3,1%) e post-neonatale sotto i 5 anni (4,5%) e, dato ancora più allarmante, vi sono paesi che tuttora non presentano alcun dato disponibile sui livelli di natimortalità (38 paesi a fronte dei 68 del 2009) (4).

Cause prevenibili e (mancati) interventi

Si stima che oltre il 50% delle morti in utero nel 2015 sia dovuto a cause potenzialmente evitabili: basti pensare che circa 1.3 milioni di morti in utero sono avvenute durante il travaglio, nonostante ormai almeno il 60% dei parti nel mondo sia assistito da personale qualificato in strutture sanitarie (6). I fattori di rischio prevenibili o modificabili che si ritrovano con maggiore frequenza a livello globale sono eterogenei e variano da regione a regione. Tra le principali cause evitabili di morte in utero, vi sono le gravidanze che superano le 42 settimane: un grave fattore di rischio, al quale può essere attribuito circa il 14% dei nati morti in tutto il mondo, ma in particolare nei paesi dove mancano politiche o indicazioni di induzione del travaglio e un’assistenza ostetrica d’emergenza. Anche le infezioni materne sono tra le principali cause di natimortalità evitabile, soprattutto nell’Africa subsahariana. Si stima che la malaria durante la gravidanza sia la causa dell’8,2% delle morti in utero nel mondo (il 20% nell’Africa subsahariana), e la sifilide del 7,7% (l’11,2% nell’Africa subsahariana). Per quanto riguarda HIV/AIDS e morti in utero, benché tale infezione sia una causa dimostrata di natimortalità, al momento non sono presenti ancora studi affidabili per i paesi ad alta endemia e bassa disponibilità di terapie antiretrovirali. Il 6,7% delle morti in utero sono invece riconducibili ad un’età materna superiore ai 35 anni. Anche la gravidanza in età adolescenziale, soprattutto sotto i 16 anni di età, comporta un rischio maggiore di natimortalità, che non è possibile quantificare con esattezza a causa della mancanza di dati età-specifici. Le epidemie globali di malattie non trasmissibili (in primo luogo il diabete), l’ipertensione e l’obesità hanno un impatto significativo sulle gravidanze in tutte le regioni del mondo, in particolare se combinate con una gravidanza in età avanzata. Si stima che circa il 10% delle morti in utero è da attribuire a queste cause. Infine, oltre 200.000 nati morti nel 2015 (4,7% del totale) sono causati da pre-eclampsia ed eclampsia, con un maggiore impatto nell’Africa subsahariana e nell’Asia del sud, proprio a causa di una scarsa assistenza antenatale e durante il travaglio (5).

Un’analisi di studi randomizzati e osservazionali presente nella serie “Ending Preventable Stillbirths” del Lancet del 2011 (7), ha mostrato numerosi interventi di provata efficacia. In particolare, l’assistenza durante il parto, soprattutto gli interventi ostetrici d’urgenza (compreso il parto cesareo), sono quelli in grado di prevenire la maggior parte delle morti in utero. Anche l’assistenza prenatale (ad esempio la diagnosi ed il trattamento di sifilide, ipertensione, diabete, ritardo di crescita e gravidanza post-termine) è estremamente efficace (Tabella 1).

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Tabella 1: Interventi e numero di morti in utero evitabili con una copertura del 99% nel 2015

E’ stato inoltre stimato che questi interventi preventivi rivolti alla natimortalità ma anche alla salute materna, neonatale e infantile potrebbero generare un ritorno socio-economico stimato attorno a 10-25 volte il costo di implementazione dei suddetti interventi. Tali interventi proposti avrebbero dovuto prevenire il 45% dei decessi entro l’anno 2015, ma purtroppo così non è stato, principalmente a causa del mancato raggiungimento della copertura universale di tali interventi, soprattutto nei paesi con i tassi di natimortalità più alti.  Occorre inoltre citare gli interventi di pianificazione familiare che, anche se non approfonditi dall’analisi sopracitata, hanno un importante effetto preventivo sul numero di morti ad un costo sostenibile.

Raccomandazioni e prospettive future

La Serie del Lancet raccomanda che tutti i paesi garantiscano la corretta registrazione delle morti in utero, come già avviene per le morti neonatali e materne. Infatti, solo attraverso una registrazione e classificazione di tutte le morti in utero, sarà chiaro quanto ogni singolo paese stia lavorando per prevenire tali morti. Per facilitare il processo di registrazione delle morti in utero nel mondo, il sistema di classificazione dovrebbe basarsi su un solo parametro tra peso fetale ed età gestazionale. Quest’ultimo risulta il parametro più applicabile, data la maggiore facilità di registrazione rispetto al peso alla nascita. L’età gestazionale, infatti, si basa semplicemente sull’ultimo ciclo mestruale, mentre la rilevazione del peso del bambino nato senza segni di vita appare più complicata, in particolare nei paesi a basso reddito dove numerosi parti avvengono in ambiente domiciliare (5).

Il piano d’azione “Every Newborn Action Plan adottato nel 2014 da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e Unicef, ha posto l’obiettivo ambizioso di azzerare natimortalità evitabile nel mondo entro il 2030, fissando l’obiettivo globale di 12 nati morti ogni 1000 nati. Tuttavia, all’interno dei nuovi Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals SDGs) non sono inclusi obiettivi specifici per la natimortalità. Attualmente sono 94 i Paesi, principalmente a reddito alto e medio-alto, ad aver raggiunto l’obiettivo. Perché ogni Paese raggiunga il target del piano d’azione proposto da Every Newborn entro il 2030, è richiesto un tasso di riduzione annuale più che doppio rispetto a quello attuale, soprattutto nei paesi a basso reddito (8). Alla velocità attuale passeranno 160 anni prima che una donna incinta in Africa abbia la stessa probabilità di partorire un bambino vivo rispetto ad una donna europea (4).

In conclusione, il numero di morti in utero pressoché invariato negli ultimi 8 anni evidenzia purtroppo, la mancata copertura, o l’inadeguata applicazione degli interventi sopraccitati. Occorre pertanto, soprattutto nei paesi a basso e medio reddito, migliorare la qualità e l’organizzazione dell’assistenza sanitaria sia durante la gravidanza che al momento del parto per ottenere il cosiddetto “quadruplo guadagno” (9), ovvero ridurre insieme alla mortalità in utero, la mortalità materna, neonatale e i problemi di sviluppo psicofisico.

Bibliografia

  1. WHO (2016). Maternal, newborn, child and adolescent health. World Health Organization, da: http://www.who.int/maternal_child_adolescent/epidemiology/stillbirth/en/
  1. Nguyen RH, Wilcox AJ (2005). Terms in reproductive and perinatal epidemiology: 2. Perinatal terms. Journal of Epidemiology Community Health, 1019–21
  2. Riva, G (2011). La morte in utero. Salute Internazionale, da: http://www.saluteinternazionale.info/2011/10/la-morte-in-utero/
  1. Storey C, et al. (2016). Prevenire le morti in utero evitabili. International Stillbirth Alliance, 1-4.
  1. Lawn J et al. (2016). Stillbirths: rates, risk factors, and acceleration towards 2030. Ending preventable stillbirths 2 – The Lancet, 587-603
  1. De Berni et al. (2016). Stillbirths: ending preventable deaths by 2030. Ending preventable stillbirths 5, 703-16
  1. J, Kinney M. (2011). La morte in utero. The Lancet, 1- 8
  1. WHO (2014). Every Newborn – An action plan to end preventable deaths. World Health Organization, 1-53
  1. Hoope-Bender P, Stenberg K, Sweeny K. (2016). Reductions in stillbirths – more than a triple return on investment. Ending preventable stillbirths – The Lancet, 1277 – 5

Fonte immagine in evidenza:www.who.int – UNICEF/Michele Sibiloni

donne, politiche sanitarie, salute infantile